Napoli NextGenAI, 9-13 ottobre 2025
«Napule è ‘na carta sporca… ma quanno te ne vai, t’accorge che t’è trasuta dint’ô core». Ce l’avevano detto che il rientro sarebbe stato duro, ma non pensavamo così. È bastata una notte nel nostro letto per capire che una parte di noi è rimasta giù, tra la Napoli dei Quartieri Spagnoli e le luci al neon di Piazza del Plebiscito. Ci portiamo ancora addosso il profumo di pizza, le emozioni forti e tutto il sonno arretrato che non recupereremo mai. E pure se siamo tornati alla normalità, ci viene da dire: addó sta Napule mò?
Siamo partiti in cinque: Eugenio, Frida, Chiara e Tommaso, accompagnati dalla professoressa Giulia Ruina, con gli occhi curiosi di chi vuole esplorare terre nuove. Non sapevamo molto su quello che avremmo trovato, solamente che avremmo frequentato un “laboratorio di orientamento sull’Intelligenza Artificiale”. Ma abbiamo trovato molto di più: un mondo di accenti, strette di mano, domande, sorrisi nuovi, mentor, professori ed esperti ambulanti e studenti che
sembravano pronti a brevettare il futuro tra una sfogliatella e un babà.
Tra il Teatro San Carlo e il Palazzo Reale ci siamo scoperti piccoli nell’ascoltare relatori capaci di trasformare etica, algoritmi ed educazione in musica per la mente. Ma allo stesso tempo ci siamo sentiti grandi: tra così tanti studenti, abbiamo realizzato che non eravamo semplici spettatori, bensì protagonisti di una generazione che dovrà prendere posizione, confrontarsi e, se occorre, cambiare le cose.
Le plenarie erano belle, ma le pause ancora di più: lì parlavano le voci vere, i dialetti italiani che si mescolavano, le intelligenze naturali che si scambiavano battute, idee, contatti Instagram e abbracci a non finire. Napoli ci ha dato il palco, le persone hanno fatto il resto. Nei laboratori pomeridiani ci siamo messi in gioco: team misti, mentor che ci sono rimasti nel cuore e discussioni in cui l’IA era solamente lo strumento perché il cervello vero eravamo noi. Non ci hanno chiesto solo di imparare, ma di pensare. Di fare le domande giuste. Di non
dire “che figata” davanti a ogni tecnologia, ma “a che serve, per chi, e con quali conseguenze?”.
E poi le serate. La NextGen dell’11 ottobre, tra musica, arte e moda sotto le stelle del Palazzo Reale, è stata come un sogno collettivo: l’AI vista non come un robot, ma come uno specchio dell’umano. E proprio quando pensavamo che la serata avesse già dato il meglio, è arrivata la sorpresa più bella: Tananai. Una follia inaspettata che ci ha fatto cantare a squarciagola, ridere, piangere. Eravamo scatenati, emozionati e felici. Una felicità che non si dimentica. Cosa ci portiamo a casa? Non un gadget, non una brochure, e nemmeno solo un ricordo di viaggio (anche se la sfogliatella calda ha fatto la sua parte). Ci portiamo a casa una certezza: l’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire un abbraccio, uno sguardo, un sorriso, una risata sincera, una discussione faccia a faccia, il calore umano che non puoi caricare con un cavo USB.
Abbiamo capito che l’IA è potente, sì, ma ha bisogno di noi: del nostro pensiero critico, delle nostre domande, dei nostri no quando servono e dei nostri sì quando scegliamo consapevolmente. Le macchine calcolano, ma non sentono. Elaborano, ma non amano. Rispondono, ma non si emozionano.
E allora ci torna in mente quello che ci ha detto il professor Floridi nella cerimonia inaugurale al Teatro San Carlo: i dati da soli non bastano — diventano conoscenza solo quando qualcuno li interroga, li interpreta e dà loro un senso. È questo che porteremo nelle nostre classi, nei nostri pensieri e, un giorno, nei nostri lavori: la capacità di non subire la tecnologia, ma di abitarla criticamente, umanamente, insieme.
Napoli ci ha insegnato che l’intelligenza che conta davvero è quella che sa trasformare un algoritmo in un dialogo, un laboratorio in un incontro, un summit internazionale in un pezzo di vita condivisa. L’AI è il mezzo, ma noi siamo la domanda, il dubbio, la voce e il battito. E torniamo a casa con la sensazione che questo viaggio non sia finito: ha solo cambiato indirizzo.
Perché, come diceva Pino Daniele, “Napule è ‘na mano che te sceta quanno credive ‘e durmì’.” E noi, adesso, siamo svegli.